TESTI

Come nasce un piatto

Il processo creativo che porta alla creazione di un piatto non è facile da spiegare.

Nel momento in cui decidi di cambiare menu inizi a guardarti intorno, ti apri verso l’esterno, inizi a cercare i prodotti che rappresentano quella stagione e ne fai una cernita in base a quello che si addice di più al tuo stile di cucina, a quelle che sono le tue esperienze passate, le tecniche che conosci e di ciò che il menu ha bisogno. Difatti sarebbe bello poter fare un piatto pensando solo al piatto fine a se stesso, sarebbe sicuramente più facile, ma il menu è fatto di tanti piatti, che in primis, devono soddisfare le esigenze medie di chi viene a mangiare da te, poi essere congruenti loro.

Un menu, il più semplice e pulito che si può costruire deve avere almeno un antipasto, un primo e un secondo di carne, uno di pesce e uno vegetariano, questo fa sì che ci sia abbastanza scelta per la maggior parte dei clienti.

Facciamo l’esempio che in un momento di flusso creativo ti vengono in mente tre antipasti di pesce, li provi e almeno due su tre sono buoni, gli ingredienti si legano bene fra loro, rappresentano il tuo stile e credi che possano essere interessanti per il cliente medio. Bene, devi fare una scelta, o meglio diverse scelte. Non puoi avere troppi piatti in carta, perché la quantità di piatti nel tuo menu è l’equazione dei fuochi e delle attrezzature di cucina che hai a disposizioni, dei cuochi che hai in brigata e degli ingredienti, che, per regola, non possono essere ripetuti in due piatti diversi. È un bel casino!

Un menu è composto non solo da idee, oltre alla creatività serve logica ed esperienza, ogni cuoco con tot fuochi a diposizione è in grado di fare tot piatti, ma anche questo dipende da quanto il piatto è complesso, quanti passaggi ha e da quanti ingredienti/preparazioni è composto.

Nelle cucine di un ristorante si passa molto tempo a preparare le basi dei piatti in modo che il servizio sia più fluido possibile, anche l’impiattamento è importante, perché non deve essere troppo articolato, soprattutto per i piatti caldi, altrimenti la temperatura di servizio scenderebbe e il cliente avrebbe la percezione di mangiare una pietanza fredda.

Tutte queste cose e molte altre devono essere valutate nel momento in cui si decide che un piatto possa entrare in menu.

Quando sono nel periodo che precede il cambio di un menu solitamente prima valuto la stagionalità dei prodotti, dal prodotto partono una serie di collegamenti mentali con le tecniche che conosci con le quali puoi cuocere e servire quell’ingrediente.

Mi chiedo cosa mi piacerebbe trovare in un ristorante come il mio in quel preciso periodo dell’anno. Poi inizio ad aprirmi verso l’esterno, a volte è qualcosa di totalmente estraneo dalla cucina, altre volte una cena fuori, altre volte un libro di cucina che ti dà l’imput per poter usare il prodotto che hai scelto in un modo al quale non avevi pensato.

Inizio allora a pensare alla tradizione, al gusto nella memoria, alla possibilità di abbinamento con altri ingredienti al fine di esaltarne il gusto, a volte di smorzarlo o di accostargli qualcosa che possa sgrassare, arricchire, modificarne in qualche modo la percezione gustativa finale.

In questa fase è tutto senza forma, si tratta solo di abbinamenti di sapori che hai nella testa.

Provi uno più uno e se funziona vai avanti iniziando a dargli una forma.

Per quanto mi riguarda la forma di un piatto deve essere funzionale prima che estetica.

Quindi cerco consistenze e forme utili al modo in cui poi verrà mangiato.

Alla fine di tutto questo casino, se il gusto torna, se è coerente col tuo stile, se è eseguibile dalla tua brigata, se la forma ti piace hai un piatto, uno dei piatti che, forse, se non va in conflitto per ingredienti o altro con un altro piatto del menu, entrerà in carta.

L’ultima “fatica” una volta arrivati ad avere un menu coerente è comporre il menu degustazione, questo essendo un percorso che ti rappresenta particolarmente e che consigli particolarmente a chi vuole capire qualcosa in più rispetto a ciò che vuoi esprime, deve essere composto da sapori crescenti o contrastanti fra di loro, in ogni caso deve avere un senso armonico…insomma un lavorone! Questa è una delle ragioni per cui gli chef se la prendono cosi tanto quando un cliente non capisce o non apprezza un piatto, c’è un lavoro immenso dietro, mille valutazioni e decisioni prese prima di metterlo in carta…ma fa parte del gioco, se alla fine della tenzone il prodotto che devi vendere non piace o non è eseguibile dai cuochi che hai sotto di te in maniera fluida devi ripartire dall’inizio e rimettere tutto in gioco, rimetterti in gioco.

Dov’è il tempo?

 “ho iniziato ad apprezzare la vita quando ho capito di averne solo una”

Dov’è il tempo per stare con la tua ragazza, per coltivare amicizie, per stare solo in silenzio, per viaggiare, per dormire, per fare esperienze, per studiare, per vivere?

Semplice, se lavori nella ristorazione non c’è.

Le persone che scelgono di dedicare le proprie energie, la propria esistenza ad un ristorante non hanno tempo per molto altro.

All’inizio sembra normale. Ti svegli, ti fai la doccia per levarti l’unto del servizio della sera prima di dosso, prendi un caffè al volo, esci di casa, arrivi a lavoro, ti cambi sapendo che i panni che ti sei messo poco prima non li rindosserai fino a tarda notte quando li rimetterai giusto per fare il tragitto che ti porterà, alla fine di una lunga giornata, finalmente a casa.

Durante quella giornata hai fatto un sacco di cose, toccato tantissimi animali morti, pulito e tagliato verdure, mosso padelle, ti sei bruciato, ti sei tagliato.

Vari stati d’animo si sono alternati, hai odiato, amato, insultato, lodato il tuo lavoro, gli altri, i piccioni che hai pulito, le seppie che puzzavano, lo chef, la brigata, te stesso.

Il tempo che ti rimane per “vivere” è un frammento notturno che, per i più forti e incoscienti, è fra le una e le quattro di notte, per gli altri giusto un paio d’ore per scordarsi di essere una parte dell’arredamento del ristorante, per cercare pensieri diversi dal cibo e ritrovare la serenità o fare in modo che la stanchezza prenda il sopravvento e ti permetta di dormire.

“Ma avrai un giorno libero!”

“Certo!”

Un giorno libero, quasi sicuramente non il weekend, in cui pagare le bollette, salutare parenti e amici, dedicare un po’ di tempo a chi ti sta accanto e sopporta le tue lamentele, se sei così fortunato da avere qualcuno, un po’ di tempo per riposare (forse).

Perché avere un unico giorno libero è un lavoro!

Hai talmente tante cose da fare e tante altre che vorresti fare che alla fine finisci per stressarti quanto quando lavori eccetto il fatto che qualcosa ti concedi di non portarlo a termine entro fine giornata, rinunciando e accumulando un’altra promessa/impegno a te stesso:

“La prossima settimana ce la farai!”

Troverai il tempo per andare in banca, vedere i parenti, andare a cena fuori, dormire, fare sport, vedere gli amici, andare al cinema, pulire la casa, fare le lavatrici.

(Ad eccezione delle lavatrici con i panni di lavoro, quelle hanno la priorità e troverai sempre il tempo per farle perché il giorno dopo dovrai essere pulito e stirato, altrimenti saranno guai!)

 

Con il tempo ho imparato a capire il tempo.

 

Ho capito che questa vita me la sono scelta, che non importa quanto mi lamenti o quanto mi mortifichi. La verità è che potrei cambiare in qualsiasi momento tutto, ma sotto sotto mi piace fare il martire, spingermi oltre i limiti, potermi lamentare con i miei simili di quanto dura sia la nostra vita e di quanto siamo tosti a resistere, sono orgoglioso e fiero di essere un cuoco, uno chef di un ristorante cazzuto e questo appaga così tanto il mio ego da mettere in secondo piano tutto il resto.

Potresti decidere di fare lo stesso lavoro in maniera meno pretenziosa e accettare un posto in cui cucini cibo meno degno di stima, come in una mensa o trovando un locale in cui fai solo i pranzi, potresti addirittura cambiare lavoro o meglio reinventarti, venderti per più di quel che vali in qualsiasi parte del mondo in cui i cuochi italiani sono fighissimi e cucinano cibo buonissimo solo per il fatto che sono italiani…potresti.

Se non vuoi cambiare perché il tuo ego ha bisogno di essere colmato e ad essere parte di quel ristorante ti senti importante, parte di qualcosa, se non puoi rinunciare ora perché potresti ancora imparare tanto, perché ti farà comodo per il curriculum, perché credi che sarà meglio quando sarai un capo partita o uno chef…bhè, oltre a farti un in bocca la lupo e augurarti che col tempo le cose miglioreranno, ti consiglio almeno di goderti il percorso.

 

Spesso ci focalizziamo sugli obbiettivi o facciamo quello che gli altri si aspettano da noi solo per alimentare il nostro ego scordandoci di vivere il presente.

 

Quando ci poniamo degli obbiettivi troppo in là nel tempo e lo facciamo perché è necessario pensare al futuro per poter sopportare il presente o per giustificare gli sforzi che stiamo facendo, spesso ci scordiamo di apprezzare la quotidianità e il percorso che ci sta portando a quell’obbiettivo.

Passiamo la vita a sognare di arrivare al tesoro, al momento in cui andrà meglio, avremo più soddisfazioni, saremmo apprezzati per gli sforzi fatti, verremo ricompensati.

 

Ti dico un segreto:

“Il tesoro non esiste”.

 

Quello che è davvero prezioso sono le cose che non torneranno più e se ti fermi a pensarci nessun momento, nessun giorno è uguale all’altro, di conseguenza l’unico valore reale è il presente.

Appurato che la TUA scelta è quella di dedicare gran parte del TUO tempo ad un lavoro che pretende grande impegno e costanza, dovresti iniziare ad apprezzare le piccole cose che ti circondano mentre sei impegnato a riempire i frighi del ristorante di un qualsiasi proprietario nel nome di qualsivoglia chef.

 

Una battuta fra cuochi, il piacere di toccare un ingrediente che sarebbe inaccessibile per te, imparare una nuova tecnica, far parte di una squadra, collaborare consapevole e orgoglioso di essere un pezzettino fondamentale per la riuscita della realizzazione dei piatti, la concentrazione e il silenzio che ne deriva durante un servizio quando i movimenti sono fluidi e ognuno è sincronizzato con l’altro, il dopo lavoro, quando l’adrenalina si rilascia e ci si sente appagati da tutti gli incoscienti sforzi fatti durante la giornata e finalmente ci si lascia andare, questi ad altri momenti sono tutto ciò che hai quando lavori, viverli in maniera cosciente è importante.

Infine, per sopravvivere più a lungo possibile e fare in modo che l’esperienza che stai facendo non sia solo lavorativa ma sia ricordata per qualcosa di più di una tecnica appresa o di un ingrediente toccato, cerca di staccare dopo lavoro, di creare relazioni con chi vive con te  ogni giorno.

Quella è la tua famiglia,

passi più tempo con loro ogni giorno di quanto ne passi con la tua fidanzata, fai in modo che questo tempo abbia un valore, che valga la pena essere ricordato. Sforzati per creare dei legami, sono più duraturi e importanti di qualsiasi altra cosa imparerai.

Non importa cosa tu abbia vissuto durante il giorno, quante volte ti abbiano insultato,

di come sia andato il servizio, di quante cose dovrai fare domani, scindi i rapporti personali da quelli lavorativi e non prendere niente sul personale, mai.

 

Vivi la tua cazzo di vita!

Non ti martorizzare piangendoti addosso dopo il servizio più di quanto già fai durante la giornata lavorativa.

Le persone con cui lavori sono sottoposte a stress e pensieri esattamente come te, se non di più.

Fa bene sia a loro che a te staccare e non pensare al lavoro per un po’, crea legami.

Sii consapevole che le stupidaggini dette e le cose incoscienti condivise con queste persone dopo lavoro saranno le più importanti per te da vivere e quelle che più probabilmente ricorderai con gioia.

Non prenderti troppo sul serio,

ma soprattutto sii consapevole che la tua presenza nel mondo non lavorativo è altrettanto importante quindi aldilà della stanchezza e del poco dempo a disposizione dedica del tempo a te stesso, trova qualcosa che ti rigeneri, fallo come esercizio, fa che non sia leggere un libro di cucina.

Impara a relazionarti e a condividere il tuo tempo con delle persone “normali”, quelle che non non fanno parte del tuo mondo, che mangiano pasta al tonno e non hanno interesse nel sentirti parlare per delle ore di argomenti che riguardano la cucina, impara a non parlare di cucina!

Trova una routine, ritagliando del tempo dalle tue dense giornate per coltivare qualcosa che non c’entri niente con la ristorazione, un interesse, sport, hobby, dedicagli la stessa attenzione, dedizione e passione che metti nel tuo lavoro.

 

Metti nei tuoi obbiettivi lavoravi il fine di avere più tempo libero in futuro, consapevole che quello che fai è un lavoro, è un mezzo, per quanto tu possa essere appagato dal presente arriverà il momento in cui il tuo lavoro non sarà abbastanza, non saranno neppure i soldi che ti auguro riuscirai a guadagnare che ripagheranno gli sforzi fatti, avrai bisogno di tempo, prima ti prefiggi che quello è l’obbiettivo più importante da raggiungere, prima troverai l’equilibrio e la stabilità. Sarai salvo.

Hai scelto di fare ciò che fai.

Nessun piatto che farai sarà poi cosi importante fra dieci, venti, trent’anni.

Niente di ciò che avrai fatto a lavoro avrà realmente un valore nella tua vita,

ne i premi, ne gli articoli, ne i punteggi delle guide, ne i complimenti dei clienti, ne il tuo ego soddisfatto ti restituiranno il tempo che non hai vissuto.

 

Non sei solo un cuoco.

Scopri chi sei e cosa ti gratifica senza quella giacca.

Investi bene il poco tempo libero che hai.

Ricordati che fuori dalla cucina ci sono animali vivi e esseri umani, che avrebbero piacere di condividere del tempo con te.

Trattati bene, hai solo te stesso e solo questa vita.

“Alla fine del giorno è solo cibo”

 

 

 

 

EGO

Com’è possibile che l’appagamento che riceviamo dal nostro ego comandi spesso e volentieri la nostra vita?
Già, perché la soddisfazione dell’ego è la droga con assuefazione e dipendenza più forte in circolazione.
Tutto ciò che facciamo è in funzione di avere il consenso dagli altri, del sentirsi meglio degli altri o a volte la necessità di dare a noi stessi la prova che ciò che facciamo ci ricompensa.

Quando l’ego viene colamto si il piacere che ne deriva è così forte da far scordare tutti i sacrifici e gli sforzi fatti fino ad all’ora e che saranno fatti da quel momento in poi per arrivare a ottenere altra “droga”.

Ci sono due categorie di persone: chi lavora per i soldi e chi per la gloria.
Entrambi cercano di colmare qualcosa. Nel caso di chi lavora come mercenario solo per il vile denaro lo fa per avere abbastanza liquidi da spendere poter vivere e mostrare quella vita che non gli appartiene, che in realtà non si può permettere ma che fa invidia a gli altri e fa apparire superiore, migliori di chi ci circonda.

Non sono diversi coloro che lavorano per la gloria.
La gloria è ancora più infida forse, perché chi la cerca non cerca di comprarsi qualcosa di materiale per far finta di essere ciò che non è, ma ha la necessità di avere l’approvazione e la stima di chi lo circonda per sentirsi bene con se stesso e saper che ciò che fa è importante anche per gli altri.
Per avere uno sballo fugace nel quale ci si sente appagati per il duro lavoro fatto serve tanta fatica, ma la soddisfazione che ne deriva non è mai abbastanza e se ne vuole sempre di più.
“Voglio guadagnare bene, non mi interessa se devo fare da mangiare ciò che non mi soddisfa.”
Appena ottenuto:
“Voglio guadagnare di più per dare un senso al compromesso che ho scelto fatto di rinunce di carriera a discapito dei soldi”.
“Voglio ottenere il consenso dei miei clienti”
“Voglio avere dei riconoscimenti dalle guide, articoli di giornale, premi”.
Appena ottenuto:
“Voglio la seconda stella, essere fra i 50 Best, lasciare la mia impronta, essere riconosciuto come punto di riferimento per questa generazione”.

Non ne avremo mai abbastanza.
L’ego è necessario per poter continuare a stimolare noi stessi verso obbiettivi più grandi, ma c’è ego e ego.
L’ego buono è quello in cui si prende consapevolezza e fiducia in se stessi, si ha ben chiaro cosa possiamo/vogliamo essere e dove possiamo/vogliamo arrivare, ci poniamo obbiettivi tangibili e l’appagamento che ne deriva è il piacere di avere la consapevolezza di sapere ciò che siamo, cosa vogliamo dare, cosa vogliamo in cambio e quali sono i limiti sotto e sopra i quali non possiamo/vogliamo andare perché sacrificherebbe troppo della nostra vita senza un fine reale, senza un senso.

In sintesi è impossibile non essere drogati di ego, è necessario per poter crescere.
Dobbiamo solo imparare a gestirlo e a non farci prendere dall’assuefazione, dobbiamo mettere l’appagamento che noi diamo a noi stessi grazie ai traguardi raggiunti prima di quello derivato dal consenso degli altri.
Un giorno ci accorgeremo che tutti gli sforzi fatti hanno o non hanno avuto un senso in relazione a ciò che ci fa star bene, meglio esserne consapevoli prima di avere rimpianti.

Una stella per la vita

Quanto vale la vita di un cuoco? Quanto costa una stella Michelin?
Può un premio ripagare di tutti gli sforzi fatti?
Quando eri a lavorare e i tuoi amici uscivano, quando la tua fidanzata ti aspettava a casa cercando di stare sveglia e tu tornavi a notte fonda puzzolente di fritto e stanco morto, quando non c’eri in famiglia per le feste, non esistevi nei weekend e quando eri libero cercavi solo di sopravvivere alla settimana passata cercando di trovare la forza per affrontare quella successiva.
Quando ti hanno annichilito facendoti sentire una nullità, quando ti sei tagliato e bruciato ma hai continuato a lavorare perché era giusto così, quando hai saltato pranzo e cena perché dovevi fare da mangiare ai clienti, quando le gambe ti facevano male e sapevi che dovevi stare in piedi altre dieci ore, quando il caldo era insopportabile, quando l’ansia ti costringeva il petto e il ritmo del servizio era pressante, quando pulivi la cappa con il grasso che ti colava in faccia, quando riordinavi con meticolosità la linea per fare in modo che il servizio fosse migliore di quello precedente.
Quando i tuoi amici continuavano a vedersi e tu ti sei isolato così tanto da non avere altro che la cucina a farti compagnia, quando la donna ti ha lasciato perché lavoravi troppo, quando ti sei dovuto giustificare con tutti perché non rispondevi al telefono, quando anche quelli che lavoravano con te ti hanno deluso, quando hai pianto e stringendo i denti hai detto “Sono più forte di tutto questo, io vado avanti!”
Quando hai accettato quel lavoro sottopagato per imparare qualcosa in più, quando hai accettato l’altro lavoro per poterti mettere in gioco ed eri solo contro tutti a cercare di far capire che ci voleva etica, costanza e coerenza, quando hai iniziato a credere che fossi tu quello sbagliato.
Quando hai speso tutti i tuoi soldi per comprare attrezzature che ti servivano in cucina e che il ristorante non poteva finanziare, quando ti sei messo a studiare per capire come gestire il personale, come stimolarlo e farlo crescere, stando sveglio fino all’alba sui libri e sugli appunti.
Quando hai sorriso al critico o al cliente che volevano solo sfogare su di te le loro frustrazioni, lasciandoti nient’altro che il vuoto dentro. Quando ti sei abbattuto così tanto da voler cambiare lavoro, vita.
Quando il lavoro era l’unica cosa importante della tua vita, ma non ti faceva stare bene.
Quando hai pensato al suicidio.
Quando ti sei rialzato in piedi rimettendoti in discussione, quando cercavi un modo per migliorare la tua vita e quella degli altri perché ci doveva essere un altro modo, quando per l’ennesima volta ti sei svegliato dolorante ma convinto che qualcosa sarebbe cambiato.
Quando ti sei fatto carico di tutto pur di lavorare nel modo in cui volevi. Quando hai richiato più di quello che avevi.
Quando dicevano di te cattiverie atroci pur non conoscendoti, quando il tuo sous chef se n’è andato e hai dovuto riprendere in mano tutto, quando giorno dopo giorno hai cercato di far sentire la tua voce alla tua brigata, quando sei riuscito a far capire ai tuoi soci e ai tuoi clienti il tuo pensiero, quando finalmente un po’ di successo è arrivato e sono iniziate le invidie da parte di persone che reputavi amiche.
Quando ti è cresciuto il pelo sullo stomaco a forza di ingoiare rospi cercando di rimanere sereno in questo caos, senza scordarti mai che alla fine del giorno fai il cuoco e l’unica cosa che conta è fare bene da mangiare nel modo che reputi giusto.
No.
Non c’è stella ninja, dello sceriffo, cadente o Michelin che ti ridia quegli anni indietro, che ti ripaghi di tutta la fatica fatta.
La stella è un premio, non gli va dato ne troppo ne poco valore, semplicemente quello che è, un premio che ti danno perché rientri nei canoni di qualità che delle persone hanno deciso siano degni di valore. Restare se stessi e ricordarsi chi siamo è necessario, con o senza stella.
“La corsa è lunga e alla fine è solo con te stesso”
Non va scordato mai, la vera stella è essere se stessi.

Le noci di Beppe

Ogni anno mio nonno Beppe mi porta le noci che raccoglie nel bosco. Beppe non si limita a raccogliere le noci, le sceglie, le porta a casa sua e con un martellino le apre una ad una lasciandone completamente intatto l’interno, senza nemmeno una pellicina, senza un pezzo di meno, belle, sgusciate e selezionate. Quando ne ha fatte un bel po’ ed è soddisfatto del  risultato le imbusta nei sacchetti da freezer e li richiude con l’apposito laccino, poi me le porta. Purtroppo ci vediamo poco ma ogni anno all’inizio dell’inverno so che quando lo vedrò mi porterà le mie noci. Non sono buone, sono uniche. È unico l’amore e l’attenzione che ci mette per confezionarle e quando ne mangio una cerco di gustarmi tutto quello che c’è dietro.

Beppe ha 86 anni, la moglie è morta da qualche anno. Non aveva mai fatto niente in casa, appartiene a quella generazione nella quale l’uomo lavorava e la donna faceva le faccende di casa e cucinava per il marito, i figli.  Beppe non ha mai cucinato, ma ha sempre osservato Carla fare da mangiare, la amava molto e gli piaceva stare a guardarla mentre si muoveva in cucina.

Quando mia nonna è morta oltre al dolore da sopportare per la perdita ha dovuto arrangiarsi anche a prendersi cura della casa, a rifare il letto, a pulire, stirare, cucinare. Ecco, mio nonno cucina davvero bene e gli piace moltissimo farlo, è come se avesse messo tutto l’amore che provava per mia nonna e tutto il dolore per non poterla più osservare fra i fornelli nella dedizione e nell’impegno per imparare a far da mangiare.

Beppe si sveglia presto, va a fare la spesa e poi si mette a sfornellare. Arrosti, pasta, brasati, contorni, tutto fatto con attenzione e amore, tutto cucinato sulla stufa economica a legna che si trova al centro della casa, mette a sedere a pranzo le figlie e i nipoti ogni giorno, dopodiché lava i piatti e mette tutto in ordine.

Trovo incredibile il fatto che un uomo così anziano si sia reinventato a tal punto, trovo magico il fatto che lo sappia fare molto bene.

Ho sempre guardato alle persone che sono arrivate in alto per cercare di imparare qualcosa e capire come arrivare al successo, a volte non serve andare tanto lontano per trovare ispirazione, mi basterebbe avere metà dell’amore, pazienza, dedizione e costanza che ha mio nonno nel fare le cose per sentirmi una persona realizzata.

Ogni anno Beppe mi porta le noci che raccoglie, sguscia e confeziona personalmente per me. Beppe ha 86 anni e ogni anno mi chiedo se l’anno dopo avrò la fortuna di mangiare ancora quelle noci. Ogni anno le noci sono sempre più buone e io le mangio piano piano per cercare di farle durare più a lungo possibile.

Leadership Pirata!

Quando per la prima volta mi sono ritrovato a dover gestire oltre al cibo anche le persone, inizialmente ho avuto qualche difficoltà. Andai in libreria e presi un libro di management e gestione delle risorse umane, lo lessi e mi appassionai all’argomento. Ogni giorno mettevo in pratica quello che leggevo, cercando riscontro di quello che era stato scritto per aziende enormi e per persone molto distanti da me e dal mio ruolo.

Finito quel libro continuai ad approfondire l’argomento, prendendo sempre più consapevolezza del valore del mio team, della delicatezza necessaria della sua gestione, dell’importanza di trovare una sinergia fra autorevolezza e coinvolgimento se si vogliono ottenere grandi risultati di gruppo.

Nella ristorazione un capo servizio spesso si ritrova ad improvvisare il proprio ruolo di leader e questo può portare difficoltà nell’interagire col proprio staff o una mancanza di serenità generale.

Ci sono tantissimi libri che parlano di gestione del personale, di management, di leadership, di coaching, ma nessuno che parli di questi principi applicati al mondo della ristorazione.

La promozione da cuoco a chef è il momento in cui passi da fare a far fare, il che è molto più complicato di quello che sembra, è molto importante guadagnarsi il rispetto del gruppo per poter far funzionare le cose.

Nella ristorazione i dipendenti lavorano circa il doppio in più rispetto alla media, si tratta di persone che hanno sempre il piede sull’acceleratore, stanche, nervose, difficili da gestire.

I ritmi sono serrati e una cosa chiesta in più male, un approccio sbagliato, una richiesta fuori luogo o un momento di difficoltà aziendale possono essere l’inizio della fine di una brigata di sala o di cucina, di conseguenza del ristorante.

È importante capire come gestire il personale, come motivarlo e fare in modo che ogni persona si senta parte del sistema.

La squadra è quella che conta e questa va saputa gestire, motivare e gratificare.

Ci vuole un bel carisma, ma si può imparare, bisogna solo trovare il proprio metodo.

Mi piace pensare ai miei ragazzi come parte di una nave pirata e gestirli come tali.

Lo so, fa ridere, ma fra i pirati ogni persona è accettata per quello che è ed ogni membro dell’equipaggio ha l’opportunità di essere innanzitutto se stesso.

Non importa che uno abbia la benda sull’occhio, il pappagallo sulla spalla, la gamba di legno o l’uncino al posto della mano, anzi, è proprio la loro particolarità personale che li rende unici in funzione della nave, sta al capitano dar valore alla loro personalità per raggiungere lo scopo.

Nella loro anarchia organizzata i pirati riescono a collaborare verso un unico obbiettivo.

Ogni ciurma è diversa ed ogni capitano è diverso, ma se partiamo dall’accettazione delle persone come individui, crediamo in un obbiettivo comune e trasmettiamo i nostri valori alla nostra brigata lasciando al tempo stesso lo spazio alle persone per essere loro stesse, magari qualche tesoro lo troviamo e la navigazione sicuramente sarà meno noiosa.

 

 

 

 

 

 

Il Viaggio

Viaggiare è necessario. Lo è nella vita di qualunque persona, ancora più importante per un cuoco. Quando si viaggia abbiamo finalmente l’opportunità di staccare dal nostro lavoro, dalla routine, dalle nostre convinzioni.

La cosa migliore da fare è assaggiare tutto, dal junk food alla cucina tipica del luogo passando per il cibo di strada. Quando si provano cose diverse, a volte strane o poco appetenti, dobbiamo lasciarci andare, scollarci di dosso chi siamo e cosa rappresentiamo in modo da avere un approccio libero nei confronti di ciò che proviamo.

I dogmi non servono a nulla se non a fermare la creatività.

Ho assaggiato l’uovo centenario e quello cotto sotto il fango delle terme, le cavallette, le larve di formica, le acciughe marce, i fagioli di soia fermentati, il coccodrillo. Quasi tutti avevano un gusto orrendo, altri erano passabili, altri ancora solo strani, tutti mi hanno dato spunti per capire meglio la mia cultura gastronomica in contrapposizione con le altre.

Spesso quello che non ci piace non ci appartiene culturalmente.

Quando torni a casa dopo un viaggio, uno qualsiasi in cui ti sei aperto al Paese che ti ha ospitato sperimentando, sei cresciuto anche a livello professionale, hai nuovi punti di vista immagazzinati nella tua coscienza di cuoco e la tua creatività ne gode.

Io solitamente mi porto dietro un piccolo diario di viaggio in cui annoto tutto quello che mi viene in mente mentre sono in viaggio, cose di lavoro e introspezioni personali che quando le rileggo a distanza di tempo mi aiutano a conoscermi meglio, a crescere.

In America una volta, in un fast food, ho visto un bimbo mangiare un gelato con le patatine fritte, li per li mi sono disgustato pensando che quel bambino incarnasse lo stereotipo dell’americano ciccione che magia schifezze a caso, poi l’ho provato…è buonissimo! Il contrasto dolce salato, il caldo e il freddo, il croccante con il cremoso, aveva tutto senso.

Tornato a casa ho fatto un dolce pensando a quell’episodio, si trattava di un semifreddo alla vaniglia con caramello salato e chips di patate fritte, è stato in carta molto tempo ed è stato uno dei dolci che ho fatto che è piaciuto di più, non sarebbe stato possibile senza quell’esperienza.

Dovremmo assolutamente fare in modo che il viaggio sia parte del nostro lavoro e non la conseguenza di questo, viaggiare per lavoro, per studiare, analizzare, conoscere, capire e poi fare nostro ciò che proviamo durante la nostra vacanza lavoro, infine tornare a casa e lasciare che la nostra creatività ed esperienza faccia il resto.

Dieta da Chef

Cosa mangia uno chef?

Se pensavi che la risposta fosse: “Solo cose buone e sane”…ritenta, sarai più fortunato. 

Uno chef non mangia bene a casa, spesso non mangia proprio a casa, non può farlo durante la settimana essendo a lavoro e quando è libero non ha una gran voglia di cucinare quindi finisce per chiamare un delivery e ordinare cose grasse, ma soprattutto pratiche da mangiare. Quando si vuole particolarmente bene e riesce ad essere socievole con i suoi simili magari va a cena fuori a trovare dei colleghi non godendosi il cibo perchè troppo impegnato a “studiare” il lavoro altrui.

C’è anche chi, come me, adotta una strategia pratica e poco invadente mangiando direttamente a casa in maniera pratica. Prodotti buoni che non devono essere cucinati, che saziano e sfamano anche mentalmente, ad esempio formaggio francese con mostarde, tonno con olive, burro e acciughe, terrine di fegato con pane tostato, a volte semplicemente latte e cereali. L’unica cosa sicura è che nella dieta di un cuoco durante il tempo libero non manca mai del buon vino.

Lo so, è un po’ triste, però è normale essere sopraffatti dal cibo dopo una settimana in cui non si pensa ad altro, i profumi della cucina ti saziano e trovare conforto nella semplicità dei prodotti pronti è rassicurante e rilassante..

Giorno libero vuol dire non pensare al lavoro e per uno chef il cibo è lavoro. 

Cosa mangia uno chef durante la settimana mentre lavora?

 Purtroppo spesso chi cucina il cibo per il personale non mette molto amore nel farlo, si mangia prima del servizio, a volte in maniera frenetica perchè si vuole essere pronti per quando arriveranno i clienti, si recupera dagli scarti di preparazione, semilavorati che stanno per scadere e parature di verdure, di carne, si mette tutto insieme e ci si nutre, semplicemente si ingurgita cibo per saziarsi, si cerca di farlo in fretta per avere più tempo per guardare i social, fare una telefonata, fumare una sigaretta, prima che il servizio inizi.  

È una contraddizione disarmante il fatto che si passi tantissime ore per cucinare bene per gli altri e poi non riusciamo ad avere tempo per preparare da mangiare bene per noi stessi. Ahimè è reale e ricorrente. 

Cosa dovrebbe mangiare uno chef? 

La dieta di un cuoco o di qualsiasi persona che lavora nella ristorazione teoricamente è importantissima. Si dovrebbe mangiare poco e spesso, alimenti proteici, frutta, verdura, riso, bere molta acqua. Questa dieta è fondamentale per affrontare una giornata a sudare in piedi tante ore, ma soprattutto per reggere il servizio, un momento denso di stress in cui bisogna essere lucidi e reattivi, si deve assaggiare tutto, davvero tutto quello che viene preparato prima che esca in sala. Per poter essere in grado di assaggiare ogni preparazione essendo obbiettivi sulla qualità che stiamo offrendo bisogna avere appetito, non essere appesantiti e avere il palato pulito, cioè non aver mangiato alimenti troppo grassi o salati prima. 

Passiamo tutto il giorno a pensare al cibo, a cercare di fare il meglio del nostro meglio per cucinare cose buone per i nostri clienti mettendo amore e dedizione verso gli ingredienti, poi, quando è il nostro turno, ci scordiamo tutti i nostri valori e finiamo per ingurgitare qualsiasi cosa, in fretta. 

A Essenziale vige una regola basilare: la cena del personale deve essere preparata con lo stesso amore e dedizione di quella degli ospiti, dobbiamo avere una dieta equilibrata, dobbiamo volerci bene, perchè soltanto se noi siamo felici e appagati riusciamo a trasmettere serenità, passione e coerenza al cliente. 

L’immagine del cuoco è sempre stata quella di una persona paffuta, con una bella pancia e le guance piene, una figura che esprime golosità e passione per il cibo. La realtà è che i cuochi diventano in quel modo perché mangiamo un sacco di schifezze, bevono mediamente molto e hanno una vita sregolata.

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